LA VITA
Il padre, Frédéric, un capitano di fanteria venuto dalla gavetta, era dotato di notevole intelligenza e di spirito avventuroso; la madre, figlia di agiati proprietari terrieri del luogo, era una donna autoritaria, ostinata, religiosa fino alla bigotteria. I due non erano fatti per intendersi: nel 1860 il capitano Frédéric abbandona per sempre la moglie e i figli. Arthur trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Charleville, nel clima soffocante della famiglia e della provincia. Subito, dai primi anni di scuola, rivela doti di ragazzo prodigio: un'eccezionale precocità sostanziata da un ferreo tirocinio umanistico, com'è dimostrato, tra l'altro, dai temi francesi e dai componimenti in latino che ottengono pubblici riconoscimenti. Nel 1869 scrive la sua prima poesia a noi nota, Le strenne degli orfani, che verrà pubblicata dalla «Revue pour tous». Nel 1870 (Rimbaud ha appena sedici anni) assistiamo a una vera e propria esplosione poetica: compone le ventidue poesie della cosiddetta «raccolta Demeny», che consacrano la precocità del suo genio. Intanto nella classe de rhétorique si è legato d'amicizia col suo giovane professore di francese, G. Izambard, che allarga la sua cultura facendogli scoprire F. Rabelais, V. Hugo, Th. de Banville e i parnassiani. Nel luglio scoppia la guerra franco-prussiana: fino ad allora scolaro disciplinato e brillantissimo, Rimbaud comincia a manifestare i primi sintomi della sua insofferenza e della sua rivolta verso le istituzioni fondamentali: famiglia, scuola, religione, patria. Tra l'agosto del '70 e il febbraio del '71 fugge di casa tre volte: una prima volta a Parigi, dove verrà messo in prigione per non aver interamente pagato il biglietto del treno; una seconda (a piedi) a Bruxelles; una terza, ancora, nella capitale. Rientra ogni volta scornato a Charleville, dove legge i socialisti francesi (P.-J. Proudhon, F.-N. Babeuf, C.-H. Saint-Simon), compulsa (forse) opere d'occultismo, redige un Progetto di costituzione comunista, andato perduto, e si accende nella sua furia anticristiana e anticlericale. Nel settembre del '71 è ancora a Parigi, invitato questa volta dal poeta P. Verlaine, di dieci anni maggiore di lui. È l'inizio di una grande, storica amicizia particolare, intensa e burrascosa, con viaggi (Rimbaud fuggiva dalla madre, Verlaine dalla giovane sposa), rotture, riconciliazioni, stravizi (alcool e droghe), episodi violenti e drammatici (come il famoso colpo di rivoltella che Verlaine sparò all'amico nel 1873 a Bruxelles e che provocò la sua incarcerazione), e infine la separazione definitiva nel 1875. Durante il sodalizio con Verlaine, Rimbaud compone le opere maggiori: Ultimi versi, Una stagione all'inferno e le Illuminazioni; ma, tra il '74 e il '75 (la data esatta è incerta), rinuncia definitivamente alla letteratura. Si dedicherà d'ora in poi, con feroce, ostinato accanimento (lo stesso che aveva profuso nell'attività letteraria) allo studio delle lingue e alla pratica dei più vari, avventurosi mestieri. Viaggerà moltissimo, in Europa e altrove. Dal 1880 è in Abissinia, dedito a diversi commerci, trafficante d'armi e forse (ma non è provato) di schiavi. Nel maggio del 1891, affetto da un tumore al ginocchio destro, torna in patria. Gli viene amputata la gamba, ma la malattia progredisce. Nel novembre, a Marsiglia, muore, trentasettenne, dopo che la sorella Isabelle lo aveva convinto in extremis a ricevere un confessore.
L'OPERA
Si è riassunta per sommi capi la vita di Rimbaud, non solo per l'eccezionaiità della sua carriera umana e poetica, ma perché in lui vita e poesia appaiono indissolubilmente legate, non come mero
riflesso biografico dell'una sull'altra, ma come segno di un destino. La sua stessa precocità, l'irruenza della sua azione letteraria, il suo «silenzio» dopo i vent'anni, la sua esistenza
successiva, tutta così pervicacemente «pratica», rientrano in questa necessità vitale: dove la giovinezza, che qui coincide con l'avventura poetica, finisce come assolutismo incandescente che non
accetta compromessi e accomodamenti. Ma quest'immagine globale di Rimbaud non deve impedirci di scorgere le caratteristiche (e i limiti) del suo esordio poetico: ragazzo precoce e geniale quanto
si vuole, Rimbaud non può sfuggire alla legge comune, e inizia a scrivere versi sotto l'influsso palese di altri poeti: F. Coppée, Hugo, Banville, Ch.-M. Leconte de Liste. A tratti rasenta il
pastiche, ma a poco a poco si affermano la sapienza e l'energia con cui domina e plasma il materiale verbale, e il virtuosismo del versificatore. La rivolta rimbaudiana si esprime nella
tematica anticristiana e antiborghese, nell'indignatio politica contro Napoleone III, nella dissacrazione del linguaggio poetico parnassiano (Quel che si dice al poeta a proposito di
fiori). Ma si acquieta, il suo spirito ribelle, in quelle che sono forse le più alte e personali composizioni delle Poesie, tra le quali si ricordano Sensazione e Le cercatrici di
pidocchi, entrambe sul registro più basso dell'esistenza, ma al più alto diapason dell'intensità lirica.
La prima stagione poetica rimbaudiana (1870-71) si conclude con il poema simbolico Il battello ebbro, rutilante di immagini violente e grandiose: ampie volute
sintattiche sorrette da una retorica infiammata, da una prodigiosa maestria verbale e metrica. Nonostante le audacie espressive (plurilinguismo, con l'uso di neologismo, termini tecnici,
dialettismi) e, in certe composizioni, la visrulenza inusitata delle immagini. Rimbaud è rimasto fin qui nell'ambito della versificazione classica: impiega soprattutto l'alessandrino, adotta a
volte la forma del sonetto, rispetta l'alternanza di rime maschili e femminili Ma nel maggio del 1871 scrive le due «lettere del Veggente» (a G. Izambard e a P. Demeny) nelle quali
afferma la sua nuova poetica ormai svincolata dalla tradizione. Sono due documenti di straordinaria importanza (specie la seconda lettera) per l'itinerario di Rimbaud e per il divenire della
poesia e dell'arte moderna fino ai nostri giorni. Postulati fondamentali, come in tutta l'arte d'avanguardia, risultano qui l'unità di teoria e prassi («il pensiero cantato e compreso dal
cantore») e la ricerca del nuovo (di derivazione baudelairiana). Il poeta, dice Rimbaud, «si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi», e «giunge
all'ignoto», di dove riporta le sue «visioni». «Le invenzioni d'ignoto richiedono forme nuove», e una nuova lingua. Si capisce che, dopo affermazioni programmatiche così lucide e recise, Rimbaud
non possa più scrivere come in precedenza. Giustamente, G. Picon ha osservato che tra Il battello ebbro (come esemplare maggiore della prima maniera rimbaudiana) e le
Illuminazioni (o gli Ultimi versi) è come se fossero trascorsi secoli di poesia. Il salto qualitativo è immenso, la rottura con la tradizione è compiuta: Rimbaud il «lavoratore»
(è una sua autodefinizione) apre nuovi orizzonti verso i quali s'incammineranno dopo di lui altri «orribili lavoratori», i poeti della modernità. Negli Ultimi versi, composti soprattutto
nel 1872, oltre che questo nuovo atteggiamento teorico e programmatico, è palese l'influsso tecnico di Verlaine. Rimbaud ripudia qui, parzialmente, la prosodia classica, accoglie l'assonanza e
l'allitterazione, adotta il vers impair che aveva illustrato Verlaine. Ne risulta, in alcune di queste «canzoni», una musica tenue, aerea, enigmatica, in cui si decantano i bruti dati
esistenziali: estasi del ritrovamento di sé nel dolore «liberamente» accolto, e nell'abbandono, nella resa alla natura: si veda per esempio la poesia Bandiere di maggio. Nelle «lettere
del Veggente» Rimbaud aveva tuonato contro la poesia «soggettiva» della tradizione in favore di una poesia «oggettiva» a venire, dove secondo la formula famosa l'«Io è un altro». Un passo
ulteriore, dopo gli Ultimi versi, verso questa oggettività lirica, egli compie con le prose delle Illuminazioni. Se si citano qui le Illuminazioni prima di Una
stagione all'inferno non è per accogliere la tesi della loro anteriorità (è la tesi tradizionale, per la prima volta messa profondamente in discussione nel 1949, con prove grafologiche, da
Bouillane de Lacoste), ma perché esse pertengono il dominio della «letteratura pura» (per esprimerci in modo improprio), mentre Una stagione all'inferno ha le caratteristiche di un
bilancio, di una presa di coscienza, di una confessione: presenta insomma i tratti, sia pure stravolti, di un'autobiografia spirituale. La questione dell'anteriorità delle Illuminazioni
resta tuttora aperta, anche se numerosi studiosi seguono ormai la tesi Bouillane de Lacoste. Una stagione all'inferno venne pubblicata nel 1873 presso il piccolo editore Poot di
Bruxelles. I testi delle Illuminazioni (non datati dall'autore) furono editi solo nel 1886, con una «nota» di Verlaine. È impossibile, a tutt'oggi, dirimere la questione: può darsi che
Rimbaud abbia composto le Illuminazioni tra il '72 e il '73 (prima della Saison), può darsi anche che la composizione si sia estesa oltre, fino al '74 o al '75. Ma non esistono
convincenti, definitive prove filologiche. Sulla scia di Baudelaire (quello dei Petits poémes en prose) Rimbaud nelle Illuminazioni abbandona il verso per la prosa, che diventa
nelle sue mani uno strumento lirico d'inaudita potenza e ricchezza. Illuminations, secondo la testimonianza di Verlaine, va inteso nel senso di coloured plates, miniature, il
che accentua il carattere visivo dell'opera, anche se non deve andare perduta l'ambivalenza del termine. Il libro consta di 42 prose, che un critico di buona volontà (P. Guiraud) ha diviso in
«autobiografìche» e «descrittive». La bipartizione è astratta: quel che conta è che Rimbaud distrugge le apparenze sensibili e ricrea sulla pagina un mondo stravolto, surreale, dove vigono nuove
misure, proporzioni, rapporti. La scrittura è rapida, essenzialmente paratattica, lucida e rigorosa pur nell'affastellarsi delle immagini. H. Friedrich ha parlato a questo proposito di «fantasia
dittatoriale» e di «irrealtà sensibile»; Picon, da parte sua, ha caratterizzato le Illuminazioni come un «orizzonte di pure immagini», «il delirio di un'immanenza pura». Ma questi
suggerimenti critici, indicativi di una tendenza del testo, non lo abbracciano interamente. Nel loro delirio fantastico le Illuminazioni non smettono di mantenere un riferimento
costante, sia pur tenue, alla realtà empirica e storica, cosi come è individuabile un elemento concettuale-tematico che lega quest'opera alle opere precedenti di Rimbaud e alla sua stessa
biografia. Con le parole del poeta «la memoria e i sensi» divengono «il nutrimento dell'impulso creatore». Come si è detto, Una stagione all'inferno, pubblicata nel 1873, non è forse
l'ultima opera di Rimbaud; ciò che importa, comunque, è che nelle intenzioni dell'autore essa vuoi presentarsi come un redde rationem, la chiusura di una stagione della vita (e seguirà
il silenzio definitivo). Bilancio esistenziale steso precocemente da un diciannovenne, la Saison è anche una ben singolare palinodia, che, nel ritrattare, trattiene ed esalta, sul piano
intellettuale e su quello più largamente autobiografico, i temi che sembravano dover essere sconfessati. L'intera cosmogonia rimbaudiana riappare nel libro: torna il tema della rivolta
letteraria, il rapporto con la civiltà e col cristianesimo, il legame (mitizzato) con Verlaine. Se alla fine, nella logica non discorsiva, contraddittoria, del testo, prevale l'accento della
rinuncia e dell'acccttazione del dovere («la realtà rugosa da stringere»), permangono tuttavia nella memoria del lettore i bagliori utopici dell'opera espressi in frasi memorabili: «l'amore è da
reinventare»; «bisogna cambiare la vita»; «quando andremo [...] a salutare la nascita del nuovo lavoro, della nuova saggezza, la fuga dei tiranni e dei demoni, la fine delle superstizioni, ad
adorare — per primi! — Natale sulla terra!».
Per questa carica utopica (condensata nella formula «cambiare la vita»), per la tensione palingenetica che pervade tutta la sua opera, per l'assillo radicale di modernità nell'ideologia e nella
prassi poetica («bisogna essere assolutamente moderni»), Rimbaud è stato assunto tra i numi tutelari del surrealismo e di tutta l'avanguardia storica. La singolarità della sua vicenda biografica
e letteraria ha creato intorno a lui un vero e proprio «mito», che R. Etiemble si è industriato acrimoniosamente di smantellare. Il «mito» non deve impedirci di leggere Rimbaud senza diaframmi,
ma occorre riconoscere che esso è costitutivo dell'eccezionaiità di questa figura poetica.