Gabriele-Aldo Bertozzi

 

 

Gabriele-Aldo Bertozzi, professore di letteratura francese e fondatore dell'Inismo, nel 2005
Gabriele-Aldo Bertozzi, professore di letteratura francese e fondatore dell'Inismo, nel 2005

Il poeta veggente

 

Rimbaud consumò tanto precocemente quanto velocemente la sua esperienza poetica, negli anni dell'adolescenza, concentrando la sua produzione tra il 1870 e il 1874, tra i sedici e i vent'anni, tanto da farsi ricordare come un caso singolarissimo nelle letterature di tutti i tempi e tutti i paesi. Una critica logorroica, involuta e maniacalmente cervellotica sembra godere nel confondere il suo cammino che invece si può scandire con facilità avendocelo, in parte lui stesso indicato. Dopo il periodo delle prime poesie, nel maggio 1871 scrive la lettera del "veggente", vero capolavoro della letteratura francese. In questa espone con una scrittura del tutto originale le sue teorie di quel periodo. E' un testo divenuto celebre nel nostro Novecento per mille ragioni e mille torti tra cui uno dei principali è quello di aver isolato alcune affermazioni dal contesto generale. Rimbaud dopo aver affermato di voler offrire un'ora di letteratura nuova, scrive che la poesia antica culmina con la poesia greca, dopo, fino al Romanticismo non si trovano altro che letterati, versificatori, secoli di generazioni idiote. E' la posizione più rivoluzionaria che fosse mai stata concepita. Anche la discussa espressione "Je est un autre" ("Io è un altro") appartiene a questa lettera, ma perché discuterla quando l'autore la definisce senza chiaroscuri fornendo perfino un esempio? Afferma che il poeta assiste allo sbocciare del suo pensiero, si mette nella condizione di recepire, di favorire il caso, prende la penna ma non sa dove arriverà ("Se l'ottone si sveglia tromba non è affatto colpa sua"). Posta quasi al centro della lettera e centro sostanziale di questa troviamo la categorica volontà di diventare veggente:

 

Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il poeta diventa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che le quintessenze. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il gran malato, il gran criminale, il gran maledetto, - e il sommo Sapiente! - Perché giunge all'ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Giunge all'ignoto, e quando, sbigottito, finisse per perdere l'intelligenza delle proprie visioni, le avrebbe viste! Che crepi in quel suo balzo attraverso cose inaudite e ineffabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l'altro si è accasciato!

 

Altro brano notevolissimo del suo progetto è dove si sofferma sull'aspirazione a un linguaggio universale, sulla introduzione in poesia di qualsiasi elemento che prima le era estraneo - se non per evocazione - come profumi, suoni, colori:

 

Trovare una lingua; - Del resto, ogni parola essendo idea, il tempo di un linguaggio universale verrà! Bisogna essere un accademico, - più morto di un fossile, - per rifinire un dizionario di qualsiasi lingua. I deboli che si mettessero a riflettere sulla prima lettera dell'alfabeto, potrebbero precipitare presto nella follia! - Questa lingua sarà dell'anima per l'anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, del pensiero che aggancia il pensiero e che tira.

 

Affascinato dall'ignoto e dall'eccezionale si sofferma pure sulla momentanea, miserevole condizione della donna di cui è responsabile l'uomo:

 

Quando sarà infranta l'infinita servitù della donna, quando vivrà per sé e grazie a sé, e l'uomo - fino a oggi abominevole - l'avrà lasciata libera, sarà poeta, anche lei! La donna troverà la sua parte d'ignoto! I suoi mondi di idee saranno diversi dai nostri? - Troverà cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose; noi le prenderemo, le capiremo.

 

Anche il famoso sonetto delle Vocali è assimilabile alla teoria della lettera del "veggente":

 

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,

Io un giorno dirò le vostre nascite latenti

 

ma ci rinuncia. E qui assistiamo a una nuova fase del pensiero rimbaldiano.

 

 

Aprile-agosto 1873

 

A Roche, nella sua campagna vicino a Charleville, compone Una Stagione all'inferno e la pubblica entro l'anno. "Un giorno dirò" aveva scritto parlando dei suoi esercizi, ma in quest'opera, precisamente in "Alchimia del verbo" (di circa due anni dopo, del 1873 appunto), vi rinuncia e chiama follia quel suo progetto. La Stagione è un commento alla Lettera, non solo in "Alchimia"; si legga "Addio": "Io! Io che mie ero detto mago o angelo, dispensato da ogni morale". Rimbaud torna con queste sue composizioni sul recente passato e, commentando il suo precedente progetto, vi indugia e ci fornisce ulteriori esempi di ciò che "è stato".

"Alchimia" si conclude con

 

Tutto ciò è passato. Oggi so salutare la bellezza.

 

E' un tentativo di rinnovamento reso ancor più arduo dal fatto che veniva dopo uno stato di grande esaltazione creativa e che resterà per lui e per i suoi successori un momento di profonda riflessione e di stimolo perenne. In "Addio", composizione che, come vuole il titolo, chiude Una Stagione all'inferno, aveva affermato:

 

Ho provato a inventare nuovi fiori, nuovi astri, nuove carni, nuove lingue. Ho cre- duto di poter acquisire poteri sovrannaturali.

 

ponendo l'accento su "ho provato", "ho creduto", cioè su tentativi e speranza, frutto di una febbrile immaginazione.

 

Ebbene! Devo seppellire la mia immaginazione e i miei ricordi!

 

E' pure vero che queste parole erano state introdotte da un ultimo slancio di orgoglio:

 

Ho creato tutte le feste, tutti i trionfi, tutti i drammi.

 

che indicava la realizzazione della sua festa solare; poi non un "tramonto" ("Già l'autunno! Ma perché rimpiangere un eterno sole"), non la fine con la sua mediocre calma ("E temo l'inverno perché è la stagione delle comodità"), ma l'inizio di un nuovo ciclo che è identificato con l'aurora:

 

E all'aurora, armati di un'ardente pazienza, entreremo nelle splendide città.

 

All'aurora o all'alba vi entra come scrive nelle Illuminations:

 

Nella grande città ella fuggiva tra i campanili e le cupole, e correndo come un mendicante sui lungofiumi di marmo, io l'inseguivo.

 

Si tratta di "Aube" appunto, una delle composizioni più emblematiche e uno dei migliori esempi di quella nuova poesia cui Rimbaud giunge dopo gli eccessi denunciati in Una Stagione all'inferno. La maggior parte delle Illuminazioni furono composte nel 1874; Verlaine precisa tra il luglio 1873 e il febbraio 1875. La loro datazione però si ricava più facilmente dalla sensibilità critica che dai documenti storici. Sempre dal suo vecchio compagno, sappiamo che Rimbaud le aveva sottotitolate con due parole inglesi, Painted plates, che dovevano significare: Stampe colorate.

 

 

Il mito di Rimbaud

 

Apriamo ora una breve parentesi su un altro Rimbaud che va considerato perché decisamente più grande, più influente, più conosciuto, nel meglio e nel peggio, di quello reale: Rimbaud il mito. Etiemble ha redatto diversi volumi sul mito di Rimbaud, genesi, struttura, anno del centenario, e poi ancora fino a Rimbaud, système solare ou trou noir? E' sufficiente però leggere qualche titolo della Structure per rendersi conto della vastità e, spesso, contraddizione di questo mito. Troviamo tra i miti letterari quello simbolilista seguito da quello surrealista (cabala, magia ecc.); tra quelli politici, prima quello cattolico (vale la pena, fra i vari, di citare testualmente questi due titoli: "Vita e morte d'un cristia- no" e "Santo Rimbaud") poi quello totalitario in cui troviamo un Rimbaud per tutte le ideologie (non posso dire "per tutti i gusti"), quella comunarda, fascista, nazista, comunista, disfattista, patriottica; poi i miti morali: dell'onesto borghese, dell'ardennese, dell'uomo d'azione, del controborghese (avventuriero, voyou); infine dall'umano al divino: Shakespeare bambino, l'unico, il profeta, l'angelo, il Cristo, per citarne alcuni, ma da non dimenticarne, con o senza Etiemble, altri due: l'omosessuale e il viaggiatore o il nomade (Verlaine lo chiamò "l'uomo dalle suole di vento"). Vi sono libri che si possono "smontare" fin dal titolo perché è sbagliata la tesi che li ha promossi. Mito non ha sempre valore negativo, vi sono miti attivi migliori delle migliori realtà. Al nostro Giovanni Papini, che pur non era un genio, bastarono poche parole per smontare il castello di Etiemble: "Dobbiamo ringraziare la sua opera [di Etiemble] di restitutore dell'esattezza documentabile ma non bisogna dimenticare questa verità: il Rimbaud che appassionò i giovani e rinnovò la poesia europea non è quello della storia ma quello del mito". Insomma Rimbaud che nella vita dimostrò la più assoluta mancanza del senso della strategia, nella sua poesia prima nelle storia poi dimostrò di essere un grande, insuperabile stratega. Nelle sue opere (tra queste non dimentichiamo I Deserti dell'Amore), e con particolare densità nelle Illuminations, creò una sua crittografia (come prima aveva tentato di creare una sua alchimia) di cui non esisteva solo una chiave per penetrare il testo, ma molte, ognuna a piacere del lettore, dunque perfino labili, variabili, momentanee. Il gioco è straordinario, anche la perfidia è straordinaria ("Ma! chi ha reso la mia lingua tanto perfida, da guidare e tutelare fin qui la mia pigrizia?"). Fu un vero creatore! Rimbaud però così si è reso pure responsabile di tutte le falsità, le ottusità, le mostruosità che ha prodotto il suo mito e queste, tenaci, pesano molto di più di ciò che può averci dato di creativo. E' questo il mito esiziale che deve essere identificato.



L’inferno di Rimbaud

 

L’inferno

 

A Bruxelles, Verlaine non voleva che Rimbaud partisse, e le suppliche, le minacce si concretizzarono in un colpo di rivoltella che per fortuna ferì soltanto lievemente l'amico al polso. Dichiarazione, interrogatori, deposizioni al commissario di polizia e al giudice istruttore. Condanna di Verlaine. Il dramma si consumava. Nel periodo che seguì, Rimbaud si ritirò a Roche, nella sua campagna vicino a Charleville, e terminò nell'agosto 1973 la composizione di Una Stagione all'inferno iniziata nell'aprile dello stesso anno. Prima voleva chiamare l'opera "Libro pagano" o "Libro negro", infine optò sempre per un titolo aderente al contenuto. Non avendo pagato l'editore, entrarono in circolazione solo pochi esemplari. Nacque il mito. Ritenendola l'ultima opera del poeta (seguono invece le Illuminazioni e gli "scritti africani"), piacque immaginare che Rimbaud avesse distrutto, bruciato le copie della Saison ("autodafé"). La "storia" potè allora nutrirsi del mito del silenzio, dell'abbandono della poesia, così cari al nostro secolo. Furono poi trovate per caso le copie negli scantinati dell'editore e, distrutte quelle deteriorate, furono messe in vendita le altre. La tesi cambiò di poco, fu adattata e da quei tempi la "certezza" non fu mai ristabilita come Rimbaud stesso aveva permesso - lo vedremo - moltiplicando le letture della sua opera. E i miti continuarono.

Eppure, a parte le elucubrazioni critiche, permesse appunto dal poeta e da lui stesso chiamate "ultime piccole vigliaccherie", si tratta proprio di quanto indica il titolo, cioè di Una Stagione all'inferno:

 

Ma, caro Satana, ti scongiuro, uno sguardo meno irritato! e aspettando le ultime piccole vigliaccherie, tu che ami nello scrittore l'assenza di facoltà descrittive o istruttive, per te stacco questi pochi orribili foglietti dal mio taccuino di dannato.

 

L'opera tentata, se non come una rivincita di Lucifero contro Dio, almeno come riscatto di una innocenza mistica dal peso del peccato, capolavoro estremo della letteratura dell'Ottocento, non solo visionaria, segna in ogni caso la sconfitta irrimediabile della vecchia poesia e la facile labilità dei suoi valori:

 

Mi stesi nel fango. Mi asciugai al vento del crimine. E giocai brutti tiri alla follia.

 

Rimbaud con la Stagione giunge infatti all'ultimo crac:

 

Ora, recentemente essendomi trovato sul punto di fare l'ultimo crac! ho pensato di ricercare la chiave dell'antico festino, per riprendere forse l'appetito.

 

Ma quella chiave non apre due volte! Poi, si dovrà reinventare la vita, l'amore per raggiungere di nuovo la libertà.

 

 

Autoritratto

 

Ogni scrittore è sempre autobiografico. La definizione quindi risulterebbe inutile. E' che bisogna appunto vedere a quale livello si cerca quella "descrizione di sé", se in superficie o in profondità. L'uso della distinzione tuttavia sus- siste e Rimbaud non viene adeguatamente ricordato fra gli scrittori autobiografici per non aver seguito l'impostazione classica (qui nella Stagione troviamo piccole storie atroci). Eppure pochi come lui hanno insistito sulla storia della propria vita. E dico "storia" dal momento che egli stesso ha usato questo termine ("A me. La storia di una mia follia"). Per un profilo di Rimbaud dunque, niente di più semplice che rivolgersi proprio a lui. Leggiamo per esempio "Cattivo sangue" dove per arrivare alla sua vita parte dalla descrizione dei propri occhi:

 

Ho dei miei antenati Galli l'occhio biancazzurro […]

 

Significa che la particolarità, la bellezza si può dire, di quegli occhi su cui tanti si sono soffermati, per il loro sguardo, non era estranea al poeta stesso. La loro chiarezza è evidente nella famosa fotografia di Carjat e suscita un senso di freddo distacco che in quel volto di adolescente viene accentuato dalla linea delle labbra. Si dice invece che nel volto abbronzato e ossuto dell'uomo di ritorno dai paesi caldi suscitassero un'impressione diversa.

 

Ho orrore di ogni mestiere. Padroni e operai, tutti bifolchi, ignobili. La mano per scrivere vale la mano per arare. - Che secolo di mani! - Io non avrò mai la mia mano. Poi, la domesticità porta troppo lontano. L'onestà della mendicità mi deprime. I criminali sono disgustosi come castrati: io sono intatto, e m'è indifferente.

 

Queste poche parole sono la quintessenza della vita stessa del poeta nel suo rapporto con la società e l'accanita volontà di rimanere se stesso, incontaminato. Da quando scriveva a Paul Demeny che andando a Parigi avrebbe tutt'al più potuto svolgere "occupazioni poco impegnative, perché il pensiero reclama larghi margini di tempo" (Charleville, agosto 1871) o a Verlaine: "Il lavoro è più lontano da me della mia unghia dal mio occhio" (Charleville, aprile 1872), a quando, esempio ancor più significativo, arriverà in Africa a compiere massacranti fatiche e a sopportare estenuanti attese e privazioni, perfino a scendere a patti con la vita pur di giungere "presto" a quell'indipendenza economica che potesse liberarlo dalla prostituzione del lavoro. Non seppe e non volle mai credere alla possibilità del rapporto lavoro/libertà. In questo fu uno degli spiriti contemplativi più attivi che possiamo ricordare. E non troverà mai la sua mano. Se l'autobiografia è negli scritti di un autore una normale componente, gli itinerari in cui si delinea sono individuali. Ciò che distingue Rimbaud è che al vissuto affiancò sempre un divenire che sempre vide con una buona dose di chiarezza. E' la veggenza del proprio futuro? No, diciamo piuttosto che la sua vita venne annunciata nei suoi scritti perché volgeva a una determinata scelta e anche da un destino che crede ineluttabile. Patetica, sconvolgente è la sua affermazione nelle Illuminazioni ("Operai"):

 

l'orribile quantità di forza e di scienza che la sorte ha sempre allontanato da me.

 

Non si capisce pertanto come mai, nelle traduzioni italiane della Saison, invece di tradurre "bonheur" con fortuna, sia stato da tutti (almeno quelli controllati) tradotto con "gioia", "felicità". E' un errore grave! Questo il passo in questione:

 

Ho fatto il magico studio,

Della fortuna, cui nessuno sfugge.

 

Era un adolescente quando, al tempo del "Battello ebbro", i suoi versi annunciavano che avrebbe lasciato l'Europa; lo ripete nella Stagione all'inferno:

 

Eccomi sul lido armoricano. Si accendano le città della sera. La mia giornata è compiuta; abbandono l'Europa. L'aria marina mi brucerà i polmoni; i climi sperduti mi abbronzeranno

 

E' inutile cercare nelle parole che seguono l'esattezza delle previsioni:

 

Tornerò, con membra di ferro, la pelle scura, l'occhio furente: dalla mia espressione, mi si giudicherà di una razza forte. Avrò dell'oro: sarò ozioso e brutale.

 

Non si potrà però evitare di pensare al poeta di ritorno dall'Africa anche perché, continuando ancora, non mancano per ironia della sorte drammatiche previsioni:

 

Le donne curano quei feroci infermi di ritorno dai paesi caldi.

 

Forse non era feroce se non di aspetto o, divorato dal male (un tumore), provava una feroce infermità, certo è però che la sorella Isabelle si prenderà cura di quell'infermo. In termini di autobiografia il pensiero va subito a quella composizione della Stagione all'inferno intitolata "Vergine folle. Lo sposo infernale". E' notissima per motivi "extra-letterari", tuttavia la critica si è spesso chiesta chi fosse, tra Verlaine e Rimbaud, lo sposo infernale e la vergine folle. Nel voler identificare l'uno e l'altro nella ristrettezza di un ruolo risiede l'errore di questo genere di interpretazioni. Come ho già spiegato precedentemente, tutta la poesia di Rimbaud si sottrae sistematicamente a una "traduzione" univoca. Senza indugi affermo quindi che l'autore è talvolta l'uno e l'altro personaggio al tempo stesso, così come il suo compagno Verlaine; inoltre vi è sia uno sposo infernale, sia una vergine folle, personaggi che non sono identificabili coi due amici. L'autobiografia esce dall'esteriorità per raggiungere la descrizione più profonda.

 

Lui era quasi un bambino… Le sue delicatezze misteriose mi avevano sedotta. Ho dimenticato ogni mio dovere umano per seguirlo. Che vita! La vera vita è assente. Non siamo al mondo. Vado dove lui va, bisogna. E spesso se la prende con me, con me, povera anima. Demonio! - E' un Demonio, sapete, non è un uomo.

 

Nonostante siano da evitare le convinzioni, le prese di posizione, appare evidente che la vergine folle che qui sta parlando è Verlaine perché 1. era Rimbaud l'adolescente dall'aspetto delicato che lo aveva sedotto e per il quale dimenticherà i suoi doveri familiari, cdi marito e di padre; 2. sappiamo dalla corrispondenza fra i due che Rimbaud si infuriava spesso contro di lui; 3. demonio o diavolo o mago, comunque non un uomo, sono appellativi che hanno molto spesso denominato Rimbaud, anche da vivo, a Parigi, e di cui lui stesso ha incoraggiato l'uso. L'affermazi- one più importante però, motore di tutta una poe- tica, non è della   vergine folle/Verlaine, ma di Rimbaud: "La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo". Quella vita che al tempo della scuola attese, poi cercò di inventare.

E' ancora decisamente Rimbaud/sposo infernale quando dice:

 

Non amo le donne. L'amore è da reinventare, si sa. Loro non possono volere altro che una posizione sicura. Raggiunta la posizione, cuore e beltà vengono messi da parte: resta solo un freddo disprezzo, alimento del matrimonio, oggi. Oppure ve- do donne, con i segni della felicità, delle quali, io, avrei potuto fare buone compagne, divorate subito da bruti sensibili come roghi…

 

Lo ascolto mentre fa dell'infamia una gloria, della crudeltà un fascino. "Sono di razza remota: i miei padri erano Scandinavi […]. Non lavorerò mai…" Occorrerebbe quasi tutta l'opera del poeta per chiosare questo passaggio. Ri- cordiamo soltanto alcune composizioni che più prepotentemente emergono, come "Cattivo sangue" ("l'orgia e l'amicizia delle donne mi erano vietate. Neanche un compagno"); come "Alla Musica", quando nei giardini pubblici del suo paese, di fronte alla stazione, spogliava con gli occhi le ragazzine:

 

Ho scovato ben presto lo stivaletto, la calza…

- Ricostruisco i corpi, arso da belle febbri.

Esse mi trovano buffo e parlottano piano…

- E io sento i baci salirmi alle labbra…

 

Versi che dovrebbero ben chiarire cosa vuol dire il poeta quando afferma di non amare le donne, specialmente se accostati a quell'altro capolavoro di desideri erotici, di attrazione verso la donna, che sono I Deserti dell'Amore e che invece sono stati accantonati a favore dell'omosessualità. Ricordiamo ancora quando all'inizio di "Cattivo sangue" parla dei suoi antenati barbari e dell'orrore per ogni tipo di lavoro. Basterà un minimo di attenzione e un po' di sensibilità per accorgersi, offrendo un al- tro esempio, che le parole che seguono non sono della vergine folle/Verlaine che parla nel testo, ma di Rimbaud che dialoga con se stesso (e, in parte, immaginando il proprio futuro):

 

lui mi renderà forte, viaggeremo, andremo a caccia nei deserti, dormiremo sui selciati delle città sconosciute, senza pensieri, senza pene. Oppure mi ridesterò, e le leggi e i costumi saranno cambiati - grazie al suo potere magico, - il mondo, restando lo stesso, mi lascerà ai miei desideri, gioie, indolenze.

 

D'altronde, un'altra delle spiccate capacità del poeta, della sua scrittura, è stata quella di saper invertire i ruoli. Anche nelle prime poesie si verifica questa sostituzione intessuta di elementi autobiografici talvolta immaginati, anzi in "Ofelia" quel proprio futuro che egli ha saputo intravedere ci colpisce perché quando scrisse quei versi non conosceva veramente le ostilità che la vita gli avrebbe riservato. Qui saremmo proprio ai limiti della "veggenza", ma preferisco essere cauto con questo termine e pongo invece l'accento sulla sua precocità. Questa la strofa più significativa:

 

Cielo! Amore! Libertà! Che sogno, o povera Folle!

Tu ti fondevi a lui come neve al fuoco:

Le grandi visioni strozzavano la tua parola

E l'Infinito terribile smarrì il tuo occhio blu!

 

Qui Rimbaud non parla di Ofelia, ma di se stesso. Forse sperava di sbagliarsi quando diceva che Cielo, Amore e Libertà sono follie di poeta (ricordo che userà il termine "follia" quando nella Stagione all'inferno parlerà del suo passato) o almeno un'utopia per come avrebbe voluto lui. Non importa, bisognava cercarli. Il Cielo, Dio, rappresentava una delle sue massime aspirazioni, ma anche la sua condanna, la sua inferiorità, accettare l'esistenza di un peccato che non voleva riconoscere: riuscirà a distaccarsene con molta difficoltà. L'Amore, abbiamo visto, era da reinventare: non lo conoscerà. Gli resterà la Libertà alla quale non volle mai rinunciare. Il poeta si sciolse come neve al fuoco e più di una volta si rese conto che le sue grandi visioni erano inadeguate per la parola, per la vecchia parola poetica. "L'uomo dalle suole di vento", come lo chiamò Verlaine, prese le sue poche cose e partì. La rinuncia della poesia fu definitiva. La morte vi pose il sigillo.

 

 

Crisopea

 

Nell'opera di Rimbaud vi sono composizioni che illustrano il suo itinerario poetico, due però sono quelle fondamentali che segnano la prima importante svolta: la "Lettera del Veggente" e l'"Alchimia del Verbo" (Una Stagione all'inferno). La prima è un progetto e nella seconda interviene per raccontarci come quel progetto venga abbandonato o modificato perché lo ritiene una "follia". A queste si può aggiungere pure il sonetto "Vocali", non indispensabile, ma significativo sul piano teorico, perché viene assimilato alla "Lettera del Veggente" e, come tale, diventa per l'autore stesso argomento di "ripensamento" o "evoluzione" in un brano dell'"Alchimia del Verbo". Anche sul piano creativo, di linguaggio, queste composizioni sono da inserirsi tra i momenti più validi della sua produzione, per cui si osserva che il poeta giunge a rinnovare la sua scrittura proprio quando illustra il suo progetto o confessa la sua sconfitta. Una Stagione all'inferno rappresenta il capolavoro della poesia prima di cambiare voce, eredità del passato che infine si ripiega dolorante su se stessa. Non è certo la prima volta che si assiste alla nascita di un capolavoro non partendo da una conquista, da qualcosa di altamente etico, ma dalla denuncia di un errore, dalla confessione di un crimine o di una serie di disavventure. Essendo tutto costruito su un "errore", questo errore diventa l'anima stessa del suo linguaggio e la prova primaria della sua po- tenzialità. Inoltre, dopo la cosiddetta svolta della sua concezione poetica, ci troviamo davvero di fronte a una poesia differente? Il senso di "veggenza" che aveva decisamente rifiutato riappare in quelle idee e forme più pure che aveva annunciato, riappare senza il clamore giovanile, risultato più del desiderio che dell'entusiasmo, tutte componenti che derivano da una maggior presa di coscienza ("mantenere il passo conquistato"). Rimbaud non era distante dalla "Lettera del Veggente", né per spirito né per data, quando compose il sonetto "Vocali". Si esercitava a dare un colore a questi suoni: A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, Io dirò un giorno le vostre nascite latenti suoni/colori che gli ricordassero qualcosa come si può leggere nei versi che seguono (per esempio la O è legata sia all'immagine di una tromba, sia a quella degli occhi di una donna vista o immaginata). Viene subito istintivo chiedersi il perché della scelta di quei colori o per quale ragione egli si sia soffermato solo sulle vocali, anche se si consi- dera, come ho già fatto, che non si tratta altro che di un esercizio ("dirò un giorno") e che un poeta non ha l'obbligo di fornire inventari completi, tanto meno Rimbaud. Tuttavia anche un esercizio impone delle precisazioni. L'ultimo interrogativo ci verrà sciolto dal poeta stesso quando aggiungerà nell'"Alchimia del Verbo": "Regolai la forma e il movimento di ogni consonante". Restano i colori. Per ognuno abbiamo più di un'immagine e ciò ci richiama alla poetica di Rimbaud che non limita mai il numero delle possibilità.

 

Sono dunque solo esempi da moltiplicarsi. Egli stesso ne suggerisce altri in questa quartina:

 

La stella ha pianto rosa nel cuor delle tue orecchie

L'infinito è colato bianco dalla tua nuca alle tue reni

Il mare si è imperlato rosso sulle tue mammelle vermiglie

E l'Uomo ha sanguinato nero al tuo fianco sovrano.

 

Ciò detto, non è invece da considerarsi occasionale il fatto che Rimbaud in "Vocali" non nomini il giallo. Non sarebbe stato da lui, così assetato di conoscenze, ignorare l'importanza di questo colore, qualsiasi sia la sua applicazione e le suggestioni che produce. La poesia stessa di Rimbaud, in particolare quella che pre- cede la Stagione all'inferno, ha per emblema il colore che è per antonomasia quello del sole, dell'oro soprattutto. Un mirabile, dolorante esempio è: "Piangendo, vedevo l'oro - e non potei bere". Troppo è stato scritto a proposito del rapporto Rimbaud/alchimia o meglio si è creduto troppo che il poeta avesse approfondi- to quella "scienza"! E' certo però che ne fosse incline, affascinato, come dimostra il titolo "Alchimia del Verbo" (e, anche qui, in "Vocali", la nomina nell'ultimo verso della sua prime terzina). Di là appunto da tanti volumi ne creò una sua, istintiva (come d'altronde ogni alchimista), da applicare alla poesia. E l'alchimia è legata alla ricerca dell'oro. Ci si arriva attraverso tre colori principali (procedimento noto che doveva essere conosciuto anche dal poeta): il primo è il nero che indica putrefazione:

 

A, nero corsetto vello di mosche lucenti

Che ronzano intorno a fetori crudeli […]

 

il secondo è il bianco che indica purificazione:

 

[…] E, candore di vapori e tende,

Lance di ghiacciai fieri, bianchi re, brividi di umbelle

 

infine il rosso e anche i colori intermedi che sono il linguaggio oscuro degli alchimisti (da Ermete Trismegisto, il primo alchimista, deriva"ermetismo"); ad esempio, per Rimbaud O era blu e anche violetto come il colore degli occhi della donna a cui pensava. Nel sonetto sembra che, dati i colori secondo una successione alchemica, vi si affian- chino le vocali piuttosto che il contrario. Bisogna riconoscere che se fosse una coincidenza sarebbe davvero sorprendente, troppo forse. O un'alchimia? Se è così, allora il giallo è lo scopo finale di tutto il sonetto e Rimbaud non avrebbe tralasciato un colore tanto fondamentale per ogni applicazione (pure oggi, dalla stampa a colori alla cromoterapia e cromofonoterapia).

 

Rimbaud è stato uno dei grandi "visionari" della poesia moderna. Un'indagine in tale direzione può restituirgli la dimensione che gli spetta togliendolo da quella di ambiguo suggeritore. Definirlo difficile significa poi avere molta più sfiducia di me nella critica! Anche nell'elaborazione delle sue "visioni" si possono trovare le fasi dell'opus, soprattutto per le prime due. Fornisco un esempio tratto da "Addio", ultima composizione di Una Stagione all'inferno.

 

Mi rivedo la pelle rosa dal fango e dalla peste, i capelli e le ascelle pieni di vermi e vermi ancor più grossi nel cuore, disteso fra sconosciuti senza età, senza coscienza…

 

E' la fase della "putrefaccio" cui succede quest'altra "visione":

 

Talvolta vedo in cielo spiagge senza fine coperte di bianche nazioni in festa.

 

E' l'"albedo" contrassegnata dal colore bianco. Infine, ma con maggior "disinvoltura", la finale ribadita anche dall'altezza che allude sempre alla "sublimazione" della materia:

 

Un gran vascello d'oro, sopra di me, agita le sue bandiere multicolori nelle brezze del mattino.

 

 

La chiave virtuale

 

Rimbaud fu quasi ignorato dai suoi contemporanei, ma l'amico Verlaine di prodigò per assicurargli la sopravvivenza includendolo fin dalla prima edizione (1884) ne I Poeti maledetti e pubblicando poi, due anni dopo, le Illuminazioni (1886). E vi riuscì perché il secolo dopo, il nostro, farà di lui uno degli autori più seguiti. Il poeta di Charleville (oggi Charleville-Mèziéres) si caricò, quanto potè, di tutto il passato, dai lirici greci ai grandi romantici, si intrise di tutto il presente per amarlo (la Comune) o detestarlo (la mediocrità del proprio tempo) in una dinamica che si realizzerà nell'avvenire. Giunge quindi al nostro secolo. Oggi sappiamo che non è entrato con "ardente pazienza" nelle "splendide città", ma che ha certamente favorito, spesso influenzato e talvolta condizionato le scelte posteriori. In particolare i poeti del Novecento hanno cercato quasi sempre in lui una conferma delle proprie idee. Louis Argon affermò che tanti nomi sorti nella prima metà del nostro secolo si possono in fondo ridurre al solo nome di rimbaldismo; André Breton che dopo Rimbaud non si può più tornare indietro. Rimbaud giunge però alla più assediata ribalta in grande confusione, senza che sia stata cioè ancor individuata quella scelta di scrittura che Rimbaud seppe sapientemente applicare. Nella sua opera poetica egli non arriva quasi mai a spiegare, a illustrare qualcosa in modo inequivocabile, lasciando sempre aperto lo spazio per altre interpretazioni. Fu davvero un "mago"! Ci prende, conduce alle soglie di una visione e, nel momento in cui si crede di poter "vedere", ci lascia a noi stessi. Come tutti i veggenti! L'anagrafe e la topografia sono estranee al veggente; non si possono fornire nomi e indirizzi, vanno "visti" appunto! Non è quindi un'interruzione, un abbandono, ma un prolungamento lasciato al lettore. A quest'ultimo, come per il poeta stesso, la chiave dell'interpretazione, a vari livelli, fino al più ambito, quello della conoscenza, se uno vuol crederci, se pensa di poterla trovare in sé, altrimenti è solo il semplice risultato di una crittografia che il poeta applicò con un riso soffocato; gioco perverso da una parte, ma constatazione dall'altra che almeno così si rompevano i limiti, si indicava l'ignoto e, estrema crudeltà, l'ignoranza di coloro che hanno voluto incasellare il suo pensiero. Anche quando il suo linguaggio si avvale di passaggi bruschi, i risultati non mancano, anzi spesso si moltiplicano. Non si può dire che suggerisca, questo è soprattutto prerogativa dei suoi amici simbolisti, dato che il suggerimento resta pur sempre qualcosa di limitato. Attratto dall'alchimia, come s'è visto, se ne fece un'idea sua che applicò alla scrittura mescolando con un proprio rituale sostanza disparate che miravano a produrre un oro mentale. Un oro da trovare. Ne risulta che la sua opera ci presenta una moltitudine di visioni non formulate nelle quali i poeti, gli artisti del secolo hanno sempre trovato un passaggio, incessantemente e con il turbamento e l'emo- zione che derivava dalle loro intuizioni e aspettative. Rimbaud aveva capito che più il tessuto poetico si offriva a varie interpretazioni, più esso acquistava di valore, e più queste interpretazioni potevano essere superate, maggiore sarebbe stata la dinamica della conoscenza/creatività. E' per questi accordi con l'ignoto che Rimbaud è apparso continuamente all'inizio, esempio o emblema di quella nozione di superamento che caratterizza la poesia del nostro secolo. Insomma la poetica di Rimbaud consiste nell'affrancare i limiti stessi della sua stessa poesia. Per il lettore, l'opera di Rimbaud è tale da consentire la propria rivelazione dall'incontro di un numero illimitato di di punti di vista con aspetti dell'opera: essa non muta pur restando infinitamente disponibile alla verità dell'approccio interpretativo. Scoperta ogni volta e sempre inesauribilmente da scoprire. E' questo un sistema crittografico di cui possiede la chiave solo chi non vuole possederla, perché non esiste. In conclusione, si può dire che la poetica di Rimbaud segua un percorso molto lineare in cui Una Stagione all'inferno non rappresenta, come credevamo una volta, la fase finale, tutt'altro, si pone all'inizio dopo le poesie in versi. Il graduale abbandono dei versi e della vecchia scrittura "poetica" in generale scandiscono questi tempi; infatti nella prosa della "Lettera del Veggente" troviamo inclusi versi; dopo, nella Stagione, troviamo ancora inclusi versi (quelli dell'"Alchimia del Verbo"). Con le Illuminazioni, il cambiamento proclamato nell'aprile-agosto 1873 ("Niente cantici: mantenere il passo conquistato.") esclude definitivamente la poesia in versi. Con gli "scritti africani" (es. il resoconto del viaggio in Abissinia e nell'Harar) ogni sorta di poème, poemi in versi o in prosa, è escluso. E' l'opera una lotta tra menzogna e sincerità, impeto e pigrizia, lussuria - "magnifica la lussuria" scriveva - e purezza, necessità di Dio e di liberazione dal giogo della croce; "fa dell'infamia una gloria, della crudeltà un fascino". E' soprattutto l'inizio del rifiuto dei valori di una poesia già in decomposizione.

 

 

Gli scritti africani

 

Le origini alchemiche

 

Nel Rimbaud della Lettre du Voyant la via della conoscenza segue le fasi imposte dal procedimento dell'alchimia. In lui però i passaggi non generano dinamica, ma gli causano quel senso di impotenza che lo porta alla descrizione della sconfitta e della mutilazione; in seguito, fino agli scritti africani, rinnegherà sì la "scienza" di Ermete, ma non riuscirà a sottrarsi a quel metodo e alle conseguenze che quel metodo provoca in lui. Così, quando la mutilazione diverrà fisica, orribilmente reale, dirà di preferirvi la morte, sarà un modo atroce per descrivere l'ultima sconfitta. Preso da un parossismo che gli rende insopportabile ("martirio" lo chiama) l'unione della scienza con la pazienza, indispensabile per l'alchimista, sente di rimanere nella sua rivolta "più sordo del cer-vello di un bambino". Nella rinuncia all'oro della conoscenza si volge all'oro materia, inseguendo sì una via inusuale, un mercato nuovo, ma pur sempre mercato, in un continente antico e da scoprire con occhi europei. Quando nel 1871 aveva scritto la cosiddetta Lettre du Voyant, il suo progetto era chiaro: arrivare alla cono- scenza; veggente/mago, magia/alchimia; il primo scopo dell'alchimia sappiamo è la conoscenza perfetta, l'aurea apprehensio, la famosa "pietra filosofale", ovvero riuscire a trasformare se stesso attraverso la conoscenza di sé per poter trasformare il mondo: "Il primo studio dell'uomo che vuol essere poeta è la propria cono- scenza". E nel pensiero alchemico vi è una duplice ricerca, quella rivolta balle questioni naturali che ha come oggetto la conoscenza della materia, la physica, e quella predominante, l'iniziale, che si rivolge alle "questioni misteriose", esoteri- che, la mystica (meditatio et imaginatio), che ha come oggetto la conoscenza del "Sé". Meditatio e imaginatio: siamo all'"allucinazione semplice". Con gli occhi della mente inizia il moltiplicarsi di tutti i sensi, quel ragionato "dérèglement" che non ha nulla a che vedere con la facile sregolatezza fin qui intesa, ma l'uscire dalle regole, dai binari fissi in cui ogni senso è costretto, dérèglement che solo può permettere di trovare quella lingua universale "accessibile a tutti i sensi", dell'"anima per l'anima". E' noto che, fin dall'origine, l'alchimia era considerata scienza sacra, arte sacra, che l'alchimista era chiamato artista, poeta e filosofo che univa la conoscenza alla pratica. Poietes infatti significa alchimista, colui che fa, che crea, ma anche poeta. La "Grande Opera", per l'alchimista è poiesis, conoscenza (poesia) e pratica (di laboratorio) nel contempo; ma è la conoscenza del "Sé" il fine unico; l'opera di laboratorio è un pretesto per "esercitare lo spirito", perché l'alchimia è un'operazione mentale, strumento di conoscenza, ricerca perenne al fine di giungere alla liberazione totale: conoscere se stesso per trasformare il mondo: "I poeti sono cittadini" e il poeta "si fa carico dell'umanità", una dimensione sociale dunque, di emancipazione dell'uomo (e della donna, evidentemente) che include il mondo intero in una coesione intensa e universale, l'"anima universale". L'alchimia del verbo doveva essere la seconda tappa. Non c'è riuscito, ma: "Verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti dove l'altro ha ceduto!".

 

 

Dalle "poesie" agli "scritti africani"

 

La critica, da sempre, si è accostata all'opera di Rimbaud usando strumenti interpretativi che procedevano proprio all'opposto degli intenti più lucidi dell'autore. Con maggior chiarezza: si è sempre cercato di trovare in lui positivo ciò che lui non solo cercava di evitare sistematicamente, ma addirittura deplorava. "Le invenzioni di ignoto reclamano forme nuove" scriveva nella Lettre du Voyant; non le troverà, ma i tempi della sua ricerca sono chiaramente scanditi come ora vedremo. Alla sua prima fase appartengono le poesie in versi; raggiunge poi un primo vero risultato originale introducendo la prosa, sotto forma di "letteratura" epistolare, mescolata ai versi: è la lettera detta del "Veggente"; l'anno dopo si spinge ancor più nella prosa (poème en prose), ma inserisce ancora versi brevissimi nel "capitolo" in cui parla delle sue aspirazioni poetiche passate: siamo a Une Saison en enfer, unica opera da lui curata fino alla pubblicazione; Illuminations che seguono sono ormai "purificate" da velleità di vate, non un solo verso. Sono composizioni brevi, una tensione esasperata verso l'inesprimibile. Le definisce una "parata selvaggia" di cui vuol far credere di avere solo lui la chiave d'interpretazione; seguito ininterrotto di una ricerca che partiva dalle sue prime composizioni:

 

Ora, recentemente essendomi trovato sul punto di fare l'ultimo crac ! ho pensato di ricercar la chiave dell'antico festino, per riprendere forse appetito. La carità è questa chiave. - Tale ispirazione prova che ho sognato!                                                                                         

(da Una stagione all'inferno)

 

Il gioco della crittografia, sua vecchia passione, una volta condotto a termine, non lo interessa più. Trascura le Illuminazioni (titolo tra l'altro non suo e "poco rimbaldiano"), le abbandona. Giunge allora veramente alla prosa spogliandola completamente di tutto ciò che ancora poteva avere un residuo "poetico". Si avvale però di un "antico strumento e conferma un impulso sentito anni prima, entrambi della Lettre du Voyant; il primo appunto, lo stile epistolare (si veda per esempio il resoconto del suo viaggio in Abissinia e nell'Harar in cui il fatto che si tratti di una lettera al direttore di una rivista egiziana è puramente casuale, come lo fu quello di Paul Demeny, destinatario della Lettre du Voyant) e, secondo ritorno, rivisto e applicato, è quello della poesia non come versi, ma come azione. Vi giunge davvero? Non raggiunge senz'altro le vette di quella poesia che, nonostante le abilità, restava ancorata al passato, quella poesia, per esempio, che aveva raggiunto con Le bateau ivre. Ma cos'è Le bateau ivre se non un crogiolo di influenze sapientemente ammaestrate, l'abile manipolazione del visionario. Prosegue invece da Une saison en enfer, alle Illuminations verso una strada sempre più sua, sempre più originale che non corrisponde però all'"orizzonte d'attesa". Ma la sua poesia suggerisce, invita a cercare chiavi nascoste; allora gli orizzonti di attesa da attivi diventano passivi, per lui vengono creati falsando quello che in realtà è il connotato più importante della sua produzione: la sconfitta (non la crisi) di ciò che avevano rappresentato fino ad allora poesia e poeta. In questa poderosa rivolta non è il solo; isolatamente operano altri guastatori, all'avanguardia, il Lautréamont dei Chants de Maldoror, il Dostoevskij dei Demoni. Comune denominatore il male, non quello edulcorato e pittoresco illustrato molti anni dopo da Georges Bataille, ma il male come suprema impotenza, cessazione in un canto finale di ogni forma creativa. Sinfonia diabolica che deve scomparire come l'ultimo incubo. Il Rimbaud africano vi riesce? Prima di rispondere c'è da chiarire un concetto: non si cessa di essere poeti cessando di scrivere versi. Esistono Victor Hugo, Paul Valèry non poeti, per non aver versato inchiostro in certi periodo della loro vita? Può darsi prima, ma non dopo un secolo, in cui non solo le grandi avanguardie storiche, Futurismo, Dadaismo e Surrealismo, hanno superato i limiti di una tale ristrettissima concezione. In sostanza il Rimbaud africano viene già tracciato nella Saison, nemico del lirismo, con il complesso dell'innocenza, sempre pronto a partire per una qualsiasi ricerca, decisamente ingenuo e ancora fermamente attratto dal male come suprema mutilazione. Prima del tumore porta nella cintura otto chili d'oro contribuiscono a debilitarlo sempre di più. Hanno voluto far di lui un portatore di civiltà in luoghi selvaggi, un bianco all'avanguardia. No, aveva solo capito quale sarebbe stata la sorte del percorso africano:

 

Sono una bestia, un negro. Ma posso essere salvato. Voi siete falsi negri, voi maniaci, feroci, avari. Mercante, tu sei negro; magistrato, tu sei negro, generale, tu sei negro; imperatore, vecchia prurigine, tu sei negro: hai bevuto un liquore non tassa- to, della fabbrica di Satana. […] L'astuzia maggiore è lasciare questo continente, dove la follia va in giro per fornire ostaggi a quei miserabili. Entro nel vero regno dei figli di Cam.

Conosco ancora la natura? Mi conosco? - Basta con le parole. Seppellisco i morti nel mio ventre. Grida, tamburo, danza, danza, danza, danza! Non vedo neppure l'ora in cui, con lo sbarco dei bianchi, cadrò nel nulla.

[…]

I bianchi sbarcano. Il cannone! Bisogna sottomettersi al battesimo, vestirsi, lavorare.

                                                                                                                                   

(da Una stagione all'inferno)

 

Non si fa avanguardia vendendo fucili (tra l'altro, fucili fuori uso in Europa), incrementando il massacro di elefanti per ricavarne avorio. L'ultima lettera di Rimbaud, dettata il 9 novembre alla sorella Isabelle, comincia così:

 

                    Un lotto: un dente soltanto.

                         Un lotto: due denti.

                         Un lotto: tre denti.

                         Un lotto: quattro denti.

                         Un lotto: due denti.

 

Potrebbe essere il brano di una poesia allucinata, ma è solo l'incubo di un moribondo. Non si capisce questo bagno di pudore nel mar Rosso, quando proprio la sua sconfitta può essere il vero capolavoro. Il suo indiscutibile interesse per gli schiavi non fu edificante come, malasorte considerata, non lo fu l'incidente di Cipro in cui in una discussione uccise un operaio con una pietra. Occorrerà soprattutto interrogare Rimbaud:

 

Fin da piccolo, ammiravo il forzato intrattabile su cui si chiude sempre la galera; visitavo le locande e le camere ammobiliate che avrebbe consacrato con un suo soggiorno; vedevo con la sua idea il cielo blu e il lavoro fiorito della campagna; fiutavo la sua fatalità nelle città. Aveva più forza di un santo, più buon senso di un viaggiatore - e se stesso, soltanto se stesso! come testimone della propria gloria e della propria ragione. Sulle strade, in certe notti d'inverno, senza asilo, senza vestiti, senza pane, una voce mi stringeva il cuore gelato: "Debolezza o forza: eccoti, è la forza. Non sai dove vai né per- ché vai, entra ovunque, rispondi a tutto. Non ti uccideranno di più che se fossi un cadavere". Al mattino avevo lo sguardo così smarrito e un contegno così smorto, che quelli che ho incontrato forse non mi hanno visto.

 

(da Una stagione all'inferno)

 

E' solo un esempio, uno dei tanti.

Lui, da negro, è diventato un falso negro unendosi allo sbarco dei bianchi.

La Primavera del Male
Poema "inista" di Francesco Guadalupi
in "Bérénice", N.S., anno XIV, nn. 35-35, luglio 2006
F. Guadalupi_La Primavera del Male.pdf
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Arthur Rimbaud in un disegno di  Paul Verlaine (1872)
Arthur Rimbaud in un disegno di Paul Verlaine (1872)


Prima edizione di "Una Stagione all'Inferno" (1873). Ed. Poot & C.
Prima edizione di "Una Stagione all'Inferno" (1873). Ed. Poot & C.


Rimbaud diciassettenne ritratto da Henri-Fantin Latour (1872)
Rimbaud diciassettenne ritratto da Henri-Fantin Latour (1872)
R. alla prima comunione (1866)
R. alla prima comunione (1866)
Rimbaud in Africa (1883)
Rimbaud in Africa (1883)