VIAGGIO IN ABISSINIA E NELL'HARAR

 

Scritto indirizzato al direttore del «Bosphore Egyptien»
Il Cairo, [20] agosto 1887





Egregio Signore,
di ritorno da un viaggio in Abissinia e nell'Harar, mi permetto di inviarle le poche note seguenti, sullo stato attuale delle cose in quella regione. Penso che contengano qualche informazione inedita; e, quanto ai pareri che vi sono espressi, mi sono suggeriti da un'esperienza di sette anni di permanenza laggiù.
Dato che si tratta di un viaggio circolare tra Obòck, lo Scioa, Harar e Zeila, vorrei chiarire che scesi a Tagiùra all'inizio dello scorso anno con lo scopo di formare una carovana con destinazione lo Scioa.
La mia carovana era fornita di alcune migliaia di fucili a capsula e di un ordinazione di utensili e forniture diverse per il re Menelik. I Dankali la trattennero a Tagiùra un anno intero, come fanno con tutti i viaggiatori, aprendo loro la strada solo dopo averli depredati di tutto il possibile. Un'altra carovana, le cui merci sbarcarono a Tagiùra con le mie, è riuscita a mettersi in marcia solo dopo quindici mesi e i mille remington portati dal defunto Soleillet alla stessa data giacciono ancora dopo diciannove mesi sotto l'unico boschetto di palme del villaggio.
In sei brevi tappe da Tagiura, per circa sessanta chilometri, le carovane scendono al Lago Salato attraverso strade orribili che ricordano il presunto orrore dei paesaggi lunari. Sembra che attualmente si formi una società francese, per lo sfruttamento di quel sale.
Certo, il sale esiste, in superfici abbastanza estese, e forse molto profonde, sebbene non siano stati fatti sondaggi. L'analisi l'avrebbe dichiarato chimicamente puro, benché si trovi depositato senza filtrazioni ai bordi del lago. Ma ci sono forti dubbi che la vendita copra le spese dell'apertura di una via per l'installazione di una decauville [è una ferrovia], tra la spiaggia del lago e quella del golfo di Gubbet Caràb, le spese di personale e di manodopera, che sarebbero eccessivamente alte (dovendo far venir da fuori tutti i lavoratori, perché i Beduini dankali non lavorano), e il mantenimento di una truppa armata per proteggere i lavori.
Per tornare alla questione degli sbocchi, c'è da osservare che l'importante salina di Scec Otmàn, impiantata vicino ad Aden, da una società italiana, in condizioni eccezionalmente vantaggiose, non sembra ancora aver trovato sbocco per le montagne di sale che ha in deposito.
Il Ministero della Marina ha accordato quella concessione ai richiedenti, persone che trafficavano un tempo nello Scioa, a condizione che si procurino il consenso dei capi interessati della costa e dell'interno. Il governo d'altronde si è riservato una tassa per ogni tonnellata, e ha fissato una quota per il libero sfruttamento da parte degli indigeni. I capi interessati sono: il sultano di Tagiùra, che sarebbe proprietario per eredità di alcuni massicci rocciosi nei paraggi del lago (è dispostissimo a vendere i suoi diritti); il capo della tribù dei Debné, che occupa la nostra strada, dal lago fino a Errèr; il sultano Loita, il quale prende dal governo francese una paga mensile di centocinquanta talleri per infastidire il meno possibile i viaggiatori; il sultano Hanfaré dell'Aùssa, che può trovare sale altrove, ma che pretende di aver diritti ovunque presso i Dankali; e infine Menelik, presso il quale la tribù dei Debné, e altre, portano annualmente alcune migliaia di cammelli di quel sale, forse meno di un migliaio di tonnellate. Menelik ha protestato presso il Governatorato quando è stato avvertito delle manovre della società e del dono della concessione. Ma la parte riservata nella concessione basta al commercio della tribù dei Debné e ai bisogni culinari dello Scioa, non essendo il sale in grani usato come moneta in Abissinia.
La nostra strada è detta strada Gobad, dal nome della quindicesima stazione, dove pascolano di solito le greggi dei Debné, nostri alleati. Conta circa venticinque tappe, fino a Errèr, attraverso i paesaggi più orrendi di questa parte dell'Africa. È molto pericolosa per il fatto che i Debné, tribù peraltro tra le più miserabili, che effettuano i trasporti, sono eternamente in guerra, a destra, con le tribù Mudeito e Assa-Imara, e, a sinistra, con gli Issa Somali.
Nell'Errèr, pascoli a un'altitudine di circa ottocento metri, a circa sessanta chilometri dai piedi dell'altipiano degli Ittu Galla, i Dankali e gli Issa pascolano le loro greggi generalmente in stato di neutralità.
Da Errèr, si giunge all'Auàsc in otto o nove giorni. Menelik ha deciso di costituire una postazione armata nelle pianure dell'Errèr per la protezione delle carovane; questa postazione si collegherebbe a quelle degli Abissini nei monti Ittu.
L'agente del re nell'Harar, il degiac [comandante militare] Makonnen, ha inviato dall'Harar allo Scioa, attraverso la via di Errèr, i tre milioni di cartucce remington e altre munizioni che i commissari inglesi avevano fatto abbandonare a profitto dell'emiro Abdullai al momento dell'evacuazione egiziana.
Tutta questa strada è stata rilevata astronomicamente, per la prima volta, da Jules Borelli, 18 nel maggio 1886, e questo lavoro è collegato geodeticamente dalla topografia realizzata, in senso parallelo ai monti Ittu, nel suo recente viaggio nell'Harar.
Arrivando all'Auàsc, si resta stupefatti ricordando i progetti di canalizzazione di certi viaggiatori. Il povero Soleillet aveva in costruzione a Nantes un'imbarcazione speciale per questo scopo! L'Auàsc è un fossatello tortuoso e ostruito a ogni passo da alberi e rocce. L'ho attraversato in diversi punti, per parecchie centinaia di chilometri, ed è evidente che è impossibile discenderlo, anche durante le piene. Del resto, è ovunque costeggiato da foreste e deserti,19 lontano dai centri commerciali e non incrocia alcuna strada. Menelik ha fatto fare due ponti sull'Auàsc, uno sulla strada da Entoto20 al Guraghé, l'altro su quella da Ancóber all'Harar attraverso gli Ittu. Sono semplici passerelle di tronchi d'albero, destinate al passaggio delle truppe durante le piogge e le piene, e nondimeno sono lavori notevoli per lo Scioa.
Pagate tutte le spese, all'arrivo nello Scioa, il trasporto delle merci, cento carichi di cammello, arrivava a costarmi ottomila talleri, cioè ottanta talleri a cammello, su una lunghezza di solo cinquecento chilometri. Questa proporzione non è raggiunta su nessun'altra strada carovaniera africana; eppure procedevo economizzando al massimo e con una grandissima esperienza di quelle contrade. Sotto tutti i profili, quella strada è disastrosa, ed è felicemente sostituita dalla strada da Zeila all'Harar e dall'Harar allo Scioa attraverso gli Ittu.
Menelik si trovava ancora in guerra nell'Harar quando giunsi a Farré, punto d'arrivo e di partenza delle carovane e confine della razza dankala. Presto giunse ad Ancóber la notizia della vittoria del re e della sua entrata in Harar, e l'annuncio del suo ritorno, che avvenne in una ventina di giorni. Entrò in Entoto preceduto da musici che suonavano a perdifiato trombe egiziane trovate a Harar, e seguito dalla sua truppa e dal suo bottino, tra cui due cannoni Krupp trasportati ciascuno da ottanta uomini.
Menelik aveva da molto tempo l'intenzione di impadronirsi di Harar, dove credeva di trovare un arsenale formidabile e di questo aveva avvertito gli agenti politici francesi e inglesi sulla costa. Negli ultimi anni, le truppe abissine taglieggiavano regolarmente gli Ittu; alla fine vi si sono stabilite. Da un'altra parte, l'emiro Abdullai, dopo la partenza di Redan Pascià con le truppe egiziane, preparava un piccolo esercito e sognava di diventare il Mahdi delle tribù musulmane del centro dell'Harar. Scrisse a Menelik rivendicando la frontiera dell'Auàsc e intimandogli di convertirsi all'Islam. Poiché una postazione abissina si era spinta fino a qualche giorno da Harar, l'emiro inviò alcuni cannoni e alcuni Turchi rimasti al suo servizio per disperderla: gli Abissini furono battuti, ma Menelik, irritato, si mise in marcia lui stesso, da Entoto, con circa trentamila guerrieri. L'incontro ebbe luogo a Cialenco, a sessanta chilometri a ovest di Harar, là dove Nadì Pascià aveva battuto, quattro anni prima, le tribù galla dei Méta e degli Oborra.
Lo scontro durò appena un quarto d'ora, dato che l'emiro aveva solo alcune centinaia di remington e il resto della sua truppa combatteva all'arma bianca. I suoi tremila guerrieri furono squarciati e annientati in un batter d'occhio da quelli del re dello Scioa. Circa duecento Sudanesi, Egiziani, e Turchi, rimasti presso Abdullai dopo l'evacuazione egiziana, perirono con i guerrieri galla e somali. Ed è questo che fece dire al loro ritorno ai soldati scioanesi, che non avevano mai ucciso i bianchi, che riportavano i testicoli21 di tutti i Frangui ["Francesi" in senso spregiativo] dell'Harar.
L'emiro riuscì a fuggire a Harar, dove partì la notte stessa per andare a rifugiarsi dal capo della tribù dei Gheri, a est di Harar, nella direzione di Berbera. Menelik entrò qualche giorno dopo in Harar senza resistenza, e avendo consegnato le sue truppe fuori della città, non vi fu alcun saccheggio. Il monarca si limitò a colpire con una imposizione di settantacinquemila talleri la città e la regione, a confiscare, secondo il diritto di guerra abissino, i beni mobili e immobili dei vinti morti in battaglia e portar via lui stesso dalle case degli Europei e degli altri tutto ciò che gli piaceva. Si fece consegnare tutte le armi e munizioni in deposito in I città, prima di proprietà del governo egiziano, e se ne ritornò nello Scioa, lasciando tremila suoi fucilieri accampati su un'altura vicina alla città e affidando l'amministrazione della città allo zio dell'emiro Abdullai, Ali Abu Beker, che gli Inglesi, al momento dell'evacuazione, avevano condotto prigioniero ad Aden, per poi rilasciarlo, e che il nipote teneva in schiavitù in casa sua.
Avvenne, in seguito, che la gestione di Ali Abu Beker non piacesse a Makonnen, il generale rappresentante di Menelik, il quale scese nella città con le sue truppe, le alloggiò nelle case e nelle moschee, imprigionò Ali e lo spedì in catene a Menelik.
Gli Abissini, entrati in città, la ridussero in una orribile cloaca, demolirono le abitazioni, devastarono le piantagioni, tiranneggiarono la popolazione come sanno fare i negri tra loro, e, poiché Menelik continuava a mandare dallo Scioa truppe di rinforzo seguite da masse di schiavi, il numero degli Abissini attualmente in Harar può aggirarsi sui dodicimila, di cui quattromila fucilieri armati di fucili di ogni tipo, dal Remington a quello a pietra focaia.
La riscossione delle imposte della circostante regione galla avviene ormai solo per mezzo di razzie durante le quali i villaggi vengono incendiati, il bestiame rubato e la popolazione condotta in schiavitù. Mentre il governo egiziano ricavava senza sforzo dall'Harar ottantamila libbre, la cassa abissina era costantemente vuota. Le entrate dei Galla, della dogana, delle poste, del mercato, e gli altri introiti sono rubati da chiunque si metta a riscuoterli. Gli abitanti della città emigrano, i Galla non coltivano più. Gli Abissini hanno divorato in pochi mesi la provvista di dura lasciata dagli Egiziani e che poteva bastare per diversi anni. Carestia e peste sono imminenti.
L'attività di quel mercato, la cui posizione è molto importante, come sbocco dei Galla più vicino alla costa, è diventata inesistente. Gli Abissini hanno vietato il corso delle antiche piastre egiziane che erano rimaste nel paese come moneta divisionaria dei talleri di Maria Teresa, a vantaggio esclusivo di una certa moneta di rame che non ha alcun valore. Tuttavia, ho visto a Entoto qualche piastra d'argento che Menelik ha fatto coniare con la sua effigie e che ha intenzione di mettere in circolazione nell'Harar, per risolvere la questione delle monete.
Menelik vorrebbe conservare l'Harar in suo possesso, ma capisce di essere incapace di amministrare il paese in modo da trame un serio guadagno, e sa che gli Inglesi non hanno visto di buon occhio l'occupazione abissina. Si dice, in effetti, che il governatore di Aden, che ha sempre lavorato molto attivamente per lo sviluppo dell'influenza britannica sulla costa somala, farebbe di tutto per convincere il suo governo a far occupare l'Harar nel caso in cui gli Abissini l'abbandonassero, cosa che si potrebbe verificare in seguito a una carestia o a complicazioni della guerra del Tigrài.
Da parte loro, ogni mattina gli Abissini nell'Harar credono di veder apparire le truppe inglesi da dietro le montagne. Makonnen ha scritto agli agenti politici inglesi a Zeila e a Berbera di non mandare più soldati nell'Harar; quegli agenti facevano scortare ogni carovana da alcuni soldati indigeni.
Il governo inglese, a sua volta, ha colpito con una tassa del cinque per cento l'importazione di talleri a Zeila, Bulhar e Berbera. Questa misura contribuirà a far sparire la moneta, già molto rara, nello Scioa e nell'Harar, e c'è da dubitare che favorisca l'importazione delle rupie, che non hanno mai potuto introdursi in queste regioni e pure colpite dagli Inglesi, non si sa perché, con una tassa dell'uno per cento sull'importazione attraverso questa costa.
Menelik è stato molto contrariato dal divieto d'importazione delle armi sulle coste d'Obòck e di Zeila. Come Giovanni sognava di avere il suo porto di mare a Massaua, Menelik, sebbene relegato molto lontano nell'interno, vagheggia di possedere fra poco uno scalo sul golfo di Aden. Aveva scritto al sultano di Tagiiira, sfortunatamente, dopo l'avvento del protettorato francese, proponendogli di comprargli il territorio. Alla sua entrata in Harar, si è dichiarato sovra-
no dì tutte le tribù fino alla costa, e ha incaricato il suo generale, Makonnen, di non perdere l'occasione di impadronirsi di Zeila; soltanto quando gli Europei gli hanno parlato di artiglieria e di navi da guerra, le sue mire su Zeila si sono modificate, e ha scritto ultimamente al governo francese per domandargli la cessione di Ambado.
Si sa che la costa, dal fondo del golfo di Tagiùra fino oltre Berbera, è stata ripartita tra la Francia e l'Inghilterra nel modo seguente: la Francia conserva tutto il litorale da Gùbbet Caràb a Gibùti, un capo a una dozzina di miglia a nord-ovest di Zeila, e una striscia di territorio di non so quanti chilometri di estensione all'interno, il cui confine dalla parte del territorio inglese è formato da una linea tirata da Gibùti a Ensa, terza stazione sulla strada da Zeila a Harar. Noi abbiamo dunque uno sbocco sulla strada dell'Harar e dell'Abissinia. L'Ambado, di cui Menelik ambisce il possesso, è un'ansa vicino a Gibùti, dove il governatore di Obòck aveva da molto tempo fatto piantare un pannello tricolore che l'agente inglese di Zeila faceva ostinatamente spiantare, finché non si fossero conclusi i negoziati. Ambado è senz'acqua, ma Gibùti ha buone sorgenti; e delle tre tappe che congiungono la nostra strada a Ensa due hanno acqua.
Insomma, la formazione delle carovane può effettuarsi a Gibùti, non appena ci saranno alcune strutture provviste di merci indigene e delle truppe armate. Il luogo fino a oggi è completamente deserto. Va da sé che deve essere lasciato porto franco se si vuole fare concorrenza a Zeila.
Zeila, Berbera e Bulhar restano agli Inglesi, come la baia di Saba Uanak, sulla costa cadabursi, tra Zeila e Bulhar, punto in cui l'ultimo agente consolare francese a Zeila, Henry, aveva fatto piantare la bandiera tricolore, dato che la tribù cadabursi aveva chiesto anche lei la nostra protezione, di cui gode tuttora. Tutte queste storie di annessioni o protezioni avevano acceso molto gli animi su questa costa durante gli ultimi due anni.
Il successore dell'agente francese fu Labosse, console di Francia a Suez, inviato ad interini a Zeila, dove placò tutte le dispute. Si contano adesso circa cinquemila Somali protetti dai Francesi a Zeila.
Il vantaggio della strada dall'Harar per l'Abissinia è davvero notevole. Mentre per la strada dankala non si arriva allo Scioa che dopo un viaggio di cinquanta o sessanta giorni attraverso un deserto spaventoso, e fra mille pericoli, l'Harar, contrafforte molto avanzato del massiccio etiopico meridionale, è separato dalla costa solo da una distanza che si supera facilmente in una quindicina di giorni con le carovane.
La strada è molto buona, la tribù issa, abituata a occuparsi di trasporti, è molto conciliante, e da loro non c'è il pericolo delle tribù vicine.
Da Harar a Entoto, residenza attuale di Menelik, c'è una ventina di giorni di cammino sull'altipiano degli Ittu Galla, a un'altitudine media di duemilacinquecento metri, viveri, mezzi di trasporto e di sicurezza assicurati. Ci vuole, in tutto, un mese tra la nostra costa e il centro dello Scioa, ma la distanza dall'Harar è di soli dodici giorni, e quest'ultimo punto, a dispetto delle invasioni, è certamente destinato a diventare lo sbocco commerciale esclusivo dello stesso Scioa e di tutti i Galla. Menelik stesso fu talmente colpito dai vantaggi della posizione dell'Harar, che al suo ritorno, ricordandosi l'idea delle ferrovie che gli Europei hanno spesso cercato di fargli adottare, cercava qualcuno cui affidare la commissione o concessione delle ferrovie dall'Harar al mare; ci ripensò in seguito, ricordandosi della presenza degli Inglesi sulla costa! Va da sé che, nel caso il progetto si realizzasse (cosa che del resto si realizzerà in un avvenire più o meno vicino), il governo dello Scioa non contribuirebbe affatto alle spese di esecuzione.
Menelik è completamente senza fondi, dato che resta sempre nella più totale ignoranza (o noncuranza) dello sfruttamento delle risorse delle regioni che ha sottomesso e continua a sottomettere. Non pensa che ad accumulare fucili che gli permettano di mandare le sue truppe a requisire i Galla. I pochi commercianti europei saliti nello Scioa hanno portato a Menelik, in tutto, diecimila fucili a cartuccia e quindicimila fucili a capsula, nel corso di cinque o sei anni. Questo è bastato agli Amhara per sottomettere tutti i Galla circostanti, e il deggiac Makonnen, nell'Harar, si propone di scendere alla conquista dei Galla, fino al loro confine meridionale, verso la costa di Zanzibar. Per questo ha l'ordine dello stesso Menelik al quale si è fatto credere che potrebbe aprirsi una strada in quella direzione per l'importazione delle armi. E possono almeno espandersi molto lontano da quelle coste, dato che le tribù galla non sono armate.
Quello che spinge soprattutto Menelik a un'invasione verso sud è la vicinanza scomoda e la sovranità umiliante di Giovanni. Menelik ha già lasciato Ancóber per Entoto. Dicono che voglia scendere nel Gim-ma Abba Gifar, il più fiorente dei paesi galla, per stabilirvi la sua residenza, e parlava anche di andare a stabilirsi a Harar. Menelik sogna una continua espansione dei suoi territori a sud, oltre l'Auàsc, e pensa forse di emigrare lui stesso dai paesi amhara al centro dei nuovi paesi galla, con i suoi fucili, i suoi guerrieri, le sue ricchezze, per fondare lontano dall'imperatore un impero meridionale come l'antico regno di Ali Alaba.
Ci si domanda quale sia e quale sarà l'atteggiamento di Menelik durante la guerra italo-abissina. È chiaro che il suo atteggiamento sarà determinato dalla volontà di Giovanni, che è il suo vicino immediato, e non dagli intrighi diplomatici dei governi che sono a una distanza per lui invalicabile, intrighi che del resto non comprende e di cui diffida sempre. Menelik è nell'impossibilità di disubbidire a Giovanni, e costui, molto ben informato degli intrighi diplomatici in cui viene immischiato Menelik, saprà ben mettersi al riparo in ogni caso. Gli ha già ordinato di scegliergli i suoi migliori soldati, e Menelik ha dovuto inviarli all'accampamento dell'imperatore ad Asmara. Anche nel caso di un disastro, Giovanni opererebbe la sua ritirata su Menelik. Lo Scioa, il solo paese amhara posseduto da Menelik, non vale la quindicesima parte del Tigrài. Gli altri suoi tenitori sono tutti paesi galla precariamente sottomessi e a stento riuscirebbe a evitare una ribellione generale nel caso in cui si compromettesse in una direzione o nell'altra. Non bisogna dimenticare nemmeno che il sentimento patriottico esiste nello Scioa e in Menelik, per quanto ambizioso sia, ed è impossibile che consideri un onore o un vantaggio ascoltare i consigli degli stranieri.
Si comporterà dunque in modo da non compromettere la sua situazione, già molto complicata, e, poiché presso questi popoli non si capisce e non si accetta alcunché che non sia visibile o palpabile, agirà personalmente soltanto come il più vicino lo farà agire, e nessuno è più vicino di Giovanni, che saprà evitargli le tentazioni. Questo non vuoi dire che non ascolti con compiacenza i diplomatici; intascherà quello che potrà prendere da loro, e, al momento opportuno, Giovanni, avvisato, dividerà con Menelik. E, ancora una volta, il sentimento patriottico generale e l'opinione del popolo di Menelik hanno il loro peso nella questione.23 Ora, non vogliono saperne degli stranieri, né della loro ingerenza né della loro influenza né della loro presenza, per alcun motivo, nello Scioa come nel Tigrài, o presso i Galla.
Avendo prontamente regolato i miei conti con Menelik, gli domandai un buono pagabile a Harar, desideroso com'ero di fare la nuova strada aperta dal re attraverso gli Ittu, strada fino ad allora inesplorata, e dove avevo tentato invano di inoltrarmi dal tempo dell'occupazione egiziana dell'Harar. In quell'occasione, Jules Borelli chiese al re il permesso di fare un viaggio in quella direzione, e io ebbi così l'onore di viaggiare in compagnia del nostro amabile e coraggioso compatriota, del quale feci pervenire in seguito ad Aden i lavori geodetici, completamente inediti, su questa regione.
Questa strada conta sette tappe oltre l'Auàsc e dodici dall'Auàsc all'Harar sull'altipiano ittu, regione di magnifici pascoli e splendide foreste a un'altitudine media di duemilacinquecento metri, che gode di un clima delizioso. Le coltivazioni sono poco estese, essendo la popolazione abbastanza scarsa o forse perché si è spostata dalla strada per timore di essere depredata dalle truppe del re. Ci sono tuttavia piantagioni di caffè, giacché gli Ittu forniscono la maggior parte delle alcune migliaia di tonnellate di caffè che si vendono annualmente nell'Harar. Queste regioni, molto salubri e molto fertili, sono le uniche dell'Africa orientale adatte alla colonizzazione europea.
Quanto agli affari nello Scioa, adesso, non c'è alcunché da importare, dopo la proibizione del commercio delle armi sulla costa. Ma chi salisse con un centinaio di migliaia di talleri potrebbe investirli durante l'anno in acquisti di avorio e altre merci, dato che in questi ultimi anni sono mancati gli esportatori e la moneta è diventata eccessivamente rara. E un'occasione. La nuova strada è eccellente, e la situazione politica dello Scioa non sarà turbata durante la guerra, poiché Menelik tiene, prima di tutto, a mantenere l'ordine in casa sua.
Con i più devoti omaggi


Rimbaud

Arthur Rimbaud in un disegno di  Paul Verlaine (1872)
Arthur Rimbaud in un disegno di Paul Verlaine (1872)


Prima edizione di "Una Stagione all'Inferno" (1873). Ed. Poot & C.
Prima edizione di "Una Stagione all'Inferno" (1873). Ed. Poot & C.


Rimbaud diciassettenne ritratto da Henri-Fantin Latour (1872)
Rimbaud diciassettenne ritratto da Henri-Fantin Latour (1872)
R. alla prima comunione (1866)
R. alla prima comunione (1866)
Rimbaud in Africa (1883)
Rimbaud in Africa (1883)