Poeta maledetto francese, Arthur Rimbaud (1854-1891) fece a pezzi tutte le convenzioni sociali e letterarie di un'epoca — tardo '800 — ricca di fervore culturale e rivolgimenti politici. Anima irrequieta e sovversiva, attraversò come una meteora decadentismo, simbolismo, surrealismo, contribuendo a produrne le espressioni più nobili e rivoluzionarie. Scrisse poesie dai 15 ai 19 anni, denigrò il perbenismo del suo paese natale, scappò di casa, attaccò Stato e istituzioni, irruppe nel mondo artistico del tempo in un impeto distruttivo: indignò la borghesia, sbeffeggiò la religione, sconfessò la morale, instaurò una relazione scandalosa col poeta Verlaine, finì in carcere, ripudiò i canoni formali della poesia, partecipò forse alla Comune parigina, vagabondò per mezza Europa e teorizzò la funzione sociale del «poeta veggente». All'improvviso abbandonò la letteratura e gli ideali di «cambiare la vita» rinnegandoli per sempre. Continuò tuttavia a viaggiare approdando alfine in Africa, dove si diede al commercio di armi, pellami e spezie. Colpito a un tumore al ginocchio destro, a 37 anni fu costretto a tornare in patria dove gli venne amputata la gamba: morì poco dopo a causa dello stato avanzato del male. Da quel momento nacque la leggenda. Sconosciuto ai più, noto soltanto a ristrette élite di intellettuali, la fama di Rimbaud prese ad ingigantirsi a dismisura in una marcia travolgente che arriva fino ai giorni nostri influenzando scrittori, musicisti, artisti. Mistico allo stato selvaggio (Paul Claudel), primo poeta di una civiltà non ancora nata (René Char), Rimbaud ha incendiato una a una tutte le generazioni e quei gruppi politici e movimenti artistici che autoproclamandosi gli autentici depositari del suo «messaggio» non hanno esitato a contendersi un'eredità spirituale mai tanto ambita. Agli albori del terzo millennio l'astro di Arthur Rimbaud continua ad avvampare imperioso, tuonando furiosamente, non scalfito dalla patina del tempo, monito e speranza per chi ancora è in cerca di una inimmaginabile alternativa.
Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente:
lei non ci capirà niente, e io quasi non saprei spiegarle.
Si tratta di arrivare all'ignoto mediante
la sregolatezza di tutti i sensi.
Le sofferenze sono enormi, ma bisogna essere forti,
essere nati poeti, e io mi sono riconosciuto poeta.
Non è affatto colpa mia. È falso dire: Io penso,
si dovrebbe dire: mi si pensa.
Scusi il gioco di parole.
IO è un altro.
Arthur Rimbaud
lettera al prof. G. Izambard,
13 maggio 1871